Leadership, le 5 competenze indispensabili

di Antonio Angioni

Gestire il cambiamento in un’azienda è più semplice se le figure apicali alla guida di questo processo sono dotate di alcune caratteristiche, che rientrano nella sfera dell’“ability”. Di certo oggi occorre più che mai avere una visione di lungo periodo, che si può costruire passando da una concezione di impresa “performance driven” a una nuova “people driven”, dove i risultati finanziari si combinano con un’attenta politica delle risorse.

Parliamo di: cultura d’impresa e management

Come accennato nel contributo pubblicato la scorsa settimana, influiscono sul livello di execution, ossia sulla realizzazione della strategia, lo stile di leadership, la gestione dei talenti e, last but not least, il livello di collaborazione realizzato nell’impresa: skills manageriali che usiamo ricomprendere nell’“ability”.

Per quel che riguarda la leadership occorre partire da una precisazione, dal momento che spesso si tende a confondere il profilo del leader con quello del manager. Non siamo animati dalla volontà di fare una mera distinzione semantica, ma intendiamo riferirci alle caratteristiche costitutive. Non per niente la parola leader proviene dal verbo to lead e implica proprio la capacità di visione, di indirizzare, di motivare, tipica dell’imprenditore o del numero uno dell’impresa. La parola manager, invece, proviene dal verbo to manage e implica la capacità di gestire, di governare l’operatività. Per quanto tributari per esperienza alla cultura manageriale anglosassone, su questo tema siamo sempre stati convinti, anche per esperienza diretta, che o una persona ha all’interno del suo dna gli elementi costitutivi della leadership (che possono essere ovviamente sviluppati) oppure, diversamente, questi non possono essere acquisiti attraverso percorsi, per quanto articolati, di formazione.

Diverse sono ovviamente gli approcci, i mindset, così come altrettanto diverse sono le modalità di declinazione, gli stili di leadership, che hanno fornito l’occasione per costruire categorie sulle quali sono stati versati fiumi di inchiostro. In questa sede ci interessa richiamare l’attenzione sulle competenze che – al di là dei diversi stili adottati anche a fronte delle specificità personali – i leader devono possedere oggi, in un contesto perturbato, in continua evoluzione, definito da qualcuno come un contesto di permacrisi, dove le business disruption sono sempre più ricorrenti.

Cinque sono, a nostro avviso, queste competenze distintive:

  1. la capacità di proiettarsi nel futuro (Where we are going), ossia la capacità di creare e definire le condizioni per combinare le azioni di breve con quelle di medio lungo periodo;
  2. la capacità di trasformare rapidamente la strategia in azione (Make it happens), di assegnare le responsabilità, di assumere le decisioni e delegare, nonché di assicurarsi che i team lavorino in armonia;
  3. la capacità di riconoscere e ingaggiare i talenti (Who comes with us on our business journey), di identificare le skills critiche per l’oggi, di disegnare percorsi di sviluppo e coinvolgere le persone assicurandosene la lealtà;
  4. la capacità di costruire la generazione del domani (Who stays and sustains the organization for the next generation?) di identificare anche attraverso una mappatura adeguata le competenze critiche per il futuro;
  5. la capacità di investire in sé stessi (Personal proficiency), di non limitarsi a quanto si conosce e a quanto si è capaci di fare, di sviluppare le proprie conoscenze e intuizioni per promuovere e gestire il cambiamento.

Se ieri il tema dei talenti era problematico, oggi è diventato per molte imprese estremamente critico e siamo sicuri che del famoso articolo “The war for talent” del 2001 di Michaels e i suoi colleghi, (“The War for Talent”, McKinsey & Company, 2001, Inc. published by Harvard Business School Press) dovrebbe essere salvato solo il titolo.

Ai trend demografici – di cui si discute da anni senza pianificare una seria politica salvo correre ai ripari quando ormai è stato superato il punto di non ritorno –, ad un mercato del lavoro viscoso, a un drammatico mismatch fra domanda e offerta (speculare al mismatch fra sistema scolastico e mercato del lavoro), oggi le imprese devono far fronte anche a un altro trend, ovvero quello che Paul Polman ha definito, in un recente rapporto, conscious quitting (“From quiet quitting to conscious quitting”, febbraio 2023).

Alle dimissioni maturate, dopo la pandemia, da parte di chi si è messo alla ricerca di posizioni che fossero maggiormente corrispondenti alle proprie priorità di vita, si stanno aggiungendo adesso le dimissioni da parte di chi, soprattutto millennials e Generazione Z, lascia per conflitti etici o per disallineamento con le politiche adottate dalla propria impresa in tema ambientale, climatico.

Trasformare il capitale umano in un vantaggio competitivo diventa una scelta non più procrastinabile e implica, come dimostrato dalle imprese che hanno affrontato questa sfida, passare da aziende performance driven, esclusivamente incentrate sui risultati, ad aziende people driven nelle quali si combinano i risultati finanziari con un’attenta politica delle risorse. Non semplici slogan ma programmi impegnativi, che richiedono un salto di paradigma, un’attenzione non più, e non solo, alla fedeltà, ma anche e soprattutto alla competenza, da sviluppare per impedire l’obsolescenza delle risorse.

Requisito indispensabile per avviare un’evoluzione di questo tipo è creare un contesto di collaborazione, essenziale per i processi decisionali, per un engagement genuino (e non di maniera) delle risorse, per una veloce realizzazione delle risorse. Ma la collaborazione non si improvvisa, né tanto meno può essere imposta top-down, è piuttosto il frutto faticoso di un processo nel quale coinvolgere le risorse, generando quel contesto di fiducia, di trust che porta le persone a sentirsi motivate, riconosciute, ingaggiate.

L’esperienza e l’attività di supporto alle imprese ci porta ad evidenziare come la collaborazione finisca per generare comportamenti emulativi e avere un effetto positivo in termini di profittabilità, di consistenza, di resilienza, di retention. Ci è capitato, rileggendo un passo dell’opera di Peter Drucker “The practice of management”, di coniare un acronimo particolare nel quale abbiamo sintetizzato l’essenza del messaggio di Drucker: KGST.

  • Dove K sta per knowing yourself: essere consapevoli delle proprie potenzialità;
  • Dove G sta per growing yourself: essere capaci di imparare, disimparare e imparare di nuovo;
  • Dove S sta per sharing yourself: dedicare energie, competenze per sviluppare gli altri;
  • Dove T sta per taking care of yourself: avere cura di sé stessi per non essere marginalizzati.

L’execution non comporta solo la capacità di realizzare le priorità definite, ma implica anche la capacità di inventare il futuro. Spesso incorriamo nell’errore di soddisfare i bisogni del presente dimenticando il futuro, ma l’imprenditore sa perfettamente che non bisogna aspettare che le idee arrivino, bisogna scoprirle.

11 ottobre 2023 – L’imprenditore