L'anno che verrà

di Antonio Angioni

“…Il contesto attuale è sicuramente uno dei più difficili e complessi dal secondo dopo-guerra ad oggi ma se non altro, parafrasando Federico Caffè, possiamo dire che la produzione è tornata ad essere centrale rispetto ai consumi…”

 

L’esperienza maturata a fianco delle imprese e delle organizzazioni in questi ultimi, turbolenti anni ci porta sicuramente ad evitare di azzardare previsioni in merito al nuovo anno mentre possiamo provare a tratteggiare alcuni trend, prendendo spunto da fatti circostanziati. Il contesto attuale è sicuramente uno dei più difficili e complessi dal secondo dopo-guerra ad oggi ma se non altro, parafrasando Federico Caffè, possiamo dire che la produzione è tornata ad essere centrale rispetto ai consumi, si è acquisita una maggiore consapevolezza della centralità dell’impresa e del ruolo che l’Italia può e deve svolgere per difendere il posizionamento di secondo paese manifatturiero, dopo la Germania, all’interno dell’UE. Prendiamo le mosse dal mercato. Il contesto geopolitico ha spinto molti a decretare, se non la fine, la crisi irreversibile della globalizzazione. Sicuramente è in corso per i noti motivi geopolitici una ridefinizione del perimetro a livello mondiale ma da qui ad immaginare una crisi irreversibile della globalizzazione ci sembra una valutazione frettolosa anche perché il livello di interdipendenza raggiunto nel corso di questi anni dalle economie del globo, se pur ridimensionato, continuerà ad essere una costante del millennio. In realtà già l’incidente della portacontainer Ever Given nel marzo del 2021 aveva messo in evidenza la fragilità del sistema e la necessità di ripensare la supply chain. Questo evento combinato con il prolungato e forzoso lockdown di alcune aree strategiche della Cina ha innescato un crescente processo di reshoring. Molte imprese stanno rilocalizzando le produzioni, magari riportando in Italia le linee a più alto valore aggiunto, anche grazie agli investimenti realizzati nel frattempo con le agevolazioni dell’Industria 4.0. 

Oltre alla ridefinizione della supply chain, ai gravissimi problemi energetici nonché alla complessa gestione della transizione ecologica, le imprese dovranno far fronte in Italia anche alle crescenti difficoltà per il reperimento della mano d’opera, una vera e propria emergenza. I tentativi di promuovere un ricambio della forza lavoro, con inevitabili e gravosi ripercussioni sulla spesa previdenziale a causa di discutibili anticipazioni dei trattamenti pensionistici promossi solo per miopi interessi elettoralistici, non hanno minimamente intaccato il livello della disoccupazione e la percentuale dei neet (not in education, employment or training) che continua ad essere elevato sia in assoluto che paragonato a quello degli altri paesi dell’UE. Le imprese trovano crescenti difficoltà nel reperimento di risorse qualificate: il mismatch fra la domanda e l’offerta si sta aggravando e mina la competitività del sistema. Solo alcuni numeri: dagli ITS italiani escono 21.000 ragazzi contro gli 800.000 della Germania e i 500 000 della Francia. Se finalmente il trend demografico è uscito dai convegni per diventare oggetto di interventi della politica, occorre anche ricordare come eventuali tangibili effetti potranno vedersi solo dopo anni e le imprese non possono certo attendere. 

Oltre a rivedere e disciplinare i flussi migratori, le imprese attendono che siano predisposte adeguate politiche di formazione ed orientamento, considerando che il lavoro oltre ad essere una forma di dignità favorisce una veloce integrazione. Non solo ma anche le imprese dovranno sicuramente impostare serie politiche di re-skilling e di up-skilling per avere le persone giuste al posto giusto ed entrare nella logica di diventare Learning Organizations, scelta inevitabile non per aderire ad una moda ma per diventare realtà generative di idee e di sviluppo con effetti positivi in termini di attraction e di retention. Non fa notizia ma è preoccupante l’esodo di giovani preparati che lasciano ogni anno il paese per mercati internazionali più attraenti. Lungi dal criticare le esperienze all’estero, peraltro sperimentate di persona dal momento che sono molto formative, occorre osservare però come questo flusso non venga compensato da un flusso di ritorno, fenomeno questo che crea ulteriori problemi alle imprese ed impoverisce il sistema paese. Non si può immaginare che il tutto possa risolversi con la revisione del cuneo fiscale occorre che anche le imprese facciano la loro parte adottando, per quanto di loro competenza, adeguate formule di gestione delle risorse. 

Come confermato da alcune recenti ricerche il livello di insoddisfazione dei collaboratori risulta elevato e spiega anche la percentuale crescente del turn-over alimentata dalla ricerca di posizioni più gratificanti. A questo proposito occorre precisare che una sana mobilità non può che essere la conferma della vitalità di un sistema anche perché la logica del posto fisso e della carriera svolta all’interno di una sola azienda sono solo ormai categorie d’antan ma oltre certi limiti determina costi aggiuntivi sia per impostare le ricerche sia per gestire l’inserimento di nuove risorse. Per affrontare questi problemi ma anche per recuperare dopo il periodo pandemico un rapporto con tutti i collaboratori e con l’environment le imprese dovranno rivedere il proprio posizionamento, il modello di business e lo stile di gestione. Se durante la pandemia la soluzione del lavoro in remoto (perché non si è trattato di smart working dal momento che tale si definisce la modalità di lavoro di chi decide quando, dove e come lavorare !!!) ha permesso di far fronte all’emergenza, adesso si pone il tema della gestione Hybrid, con un mix di persone in remoto ed altre in presenza che richiede una flessibilità ed un’attenzione da parte dei manager. Non solo ma le applicazioni della tecnologia conosceranno uno sviluppo esponenziale e questo finirà per accelerare il passaggio dal fixed work al flex work al flow work richiedendo di sviluppare la propensione al cambiamento. 

Sembra una sorta di contraddizione in termini ma le imprese che si creano e si sviluppano nella logica del rischio finiscono poi per conoscere una sorta di resistenza al cambiamento che rende viscosa la messa a terra della strategia. Ma affrontare e gestire il cambiamento diventerà una costante e non si può non ricordare a questo proposito quanto scritto da C.Darwin ne ‘L’origine della specie’: ‘a sopravvivere non è la specie più forte o la più intelligente ma quella con la maggiore predisposizione al cambiamento’.

4 gennaio 2023 – Intervento nella società