Un tesoro in azienda: il capitale umano

Pubblicazione: 20 aprile 2023 00:00

Investire sulle persone per la crescita e lo sviluppo nei tempi del post-Covid

Capitale umano non è solo una delle espressioni ricorrenti nella terminologia delle aziende e degli esperti di management; ha finito per diventare una categoria ampiamente utilizzata a tal punto che si rischia di dimenticarne le implicazioni gestionali. Facciamo quindi chiarezza e mettiamo in evidenza non solo gli elementi costitutivi, ma anche le esigenze e le sfide alle quali è esposto, in un contesto come quello presente.

Origini e caratteristiche

L’espressione “human capital” fu coniata per la prima volta nel 1961 da un economista, Theodore W. Schultz, per identificare le skill, la knowledge e le competenze della forza lavoro. In quanto riferibile alle persone, il capitale umano ha alcune caratteristiche specifiche.

Innanzitutto, a differenza degli altri asset che compongono il physical capital, non può essere distinto dalle persone.

Come le altre forme di capitale, è esposto al deprezzamento (per la naturale obsolescenza delle persone, fisica e mentale), ma, a differenza delle altre forme, questo rischio può essere, se non neutralizzato, almeno ridotto, a patto che si continui a investire sulle persone.

Ma per investire occorre credere e questo, purtroppo, ha rappresentato per molti anni un limite della prevalente cultura manageriale, per la quale le persone sono state troppo spesso percepite come costi, anziché come asset.

Ha sicuramente contribuito ad alimentare questa impostazione la difficoltà a calcolare il roi di questa particolare forma di investimento, nonché la mancanza di ratios per misurare il value added delle persone al business.

La situazione sta evolvendo, sia pure lentamente, grazie anche all’evidenza di certi fattori.

Gli elementi costitutivi del cambiamento

L’analisi delle performance finanziarie delle 60 best workplaces in Italia risulta di per sé emblematica. Ad aumenti del trust index (l’indice di fiducia nella propria organizzazione) corrispondono aumenti di fatturato, mentre a decrementi dell’indice corrispondono riduzioni del tasso di sviluppo. Nel frattempo, la stessa categoria di human capital ha conosciuto una configurazione più complessa e articolata e oggi sono considerati elementi costitutivi la knowledge (quale bagaglio culturale e di esperienze), le skill (quali capacità nel senso più vasto), il talent (quale attitudine), i behavior (quali comportamenti finalizzati), l’effort (quale energiaimpegno) e il time (non nella dimensione tayloristica ma digital).

La combinazione di questi elementi potrebbe essere sintetizzata in una formula:

Total capital investment = [Ability (knowledge + skill + talent) + behavior] × effort × time

Accettando questa impostazione, si riescono a misurare gli elementi costitutivi del roi dell’investimento nelle persone, riconducibili a: l’engagement; lo sviluppo e la crescita nei ruoli; la recognition per i risultati e la politica di reward.

Un valore fondamentale per l’impresa

A pieno titolo, il capitale umano comincia finalmente ad essere riconosciuto come una delle componenti del valore globale dell’impresa.

Non solo, la stessa work experience viene rivalutata in funzione della capacità delle persone di crescere, acquistare e impiegare nuove skill. Questo implica ridisegnare la strategia di gestione delle risorse, considerando però, come anticipato in premessa, alcuni aspetti particolari.

Partiamo dalla presenza nelle imprese di 4, se non di 5, generazioni diverse per approcci, fabbisogni, esigenze, al punto che potremmo azzardarci a parlare anche di culture diverse che richiedono attenzione e soluzioni ad hoc, non sempre facilmente conciliabili.

Mentre nel passato era più semplice definire un contratto psicologico di ingaggio, oggi è più difficile ed è necessario comprendere le motivazioni al lavoro.

L’incremento degli standard di vita e la disponibilità di maggior tempo alimentano aspettative nuove. Cambia anche la percezione del lavoro, del good job nel quale influiscono elementi della personalità, che si traducono poi in atteggiamenti diversi.

Sul piano gestionale, non si dovrà rincorrere la conformità, ma la coesione da creare su mission, valori e visione, che non potranno essere relegati alle retoriche presentazioni degli ingressi aziendali e dei siti web, ma dovranno essere oggetto di una declinazione quotidiana.

Gli sviluppi della tecnologia e dell’automazione, nonché delle loro applicazioni, hanno ridotto i lavori routinari e si sono rivelati fondamentali nella gestione della pandemia di Covid-19, al punto che nessuno osa immaginare quali sarebbero stati gli effetti se avessimo dovuto affrontare questa sfida, per esempio, vent’anni fa, con il livello della tecnologia di allora. Ma quelle forme di lavoro sperimentate sotto l’emergenza hanno poi dato vita a richieste nuove.

Superare la cultura del controllo

Si sta sviluppando, sul piano gestionale, l’hybrid model, replicabile nelle aziende come nelle organizzazioni che dovranno affrontare il passaggio dal fixed work al flex work al flow work e disporre di leadership team capaci di passare da una cultura del controllo a una cultura della valutazione dei risultati, arrivando così a gestire la sfida della dematerializzazione del contesto aziendale.

Da ultimo, ma non meno importante, c’è un aspetto inquietante che non può essere sottaciuto. Siamo entrati in una fase di turbolenza continua ben diversa dai contesti precedenti, caratterizzati da fasi cicliche più o meno prevedibili. Solo negli ultimi tre anni si sono sovrapposti: pandemia, crescita dei costi delle materie prime, inflazione, crisi energetica e guerra alle porte dell’Europa.

La gestione del cambiamento non sarà più limitata a fattori contingenti ma diventerà una variabile costante per cui si impone un’attenzione diversa nella selezione degli investimenti nel capitale umano.

Nell’accezione esposta, non sarà solo un lusso, ma una necessità per le aziende che vorranno consolidare il proprio vantaggio competitivo.

Si impone, pertanto, un nuovo modo di pensare alle organizzazioni, perché, come diceva Peter Druker, il problema non è la turbolenza in sé, ma affrontare la turbolenza con la logica di ieri