In molte aziende, anche a causa della pandemia, sta cambiando il modo di gestire le risorse umane e il lavoro si trasforma da mera esecuzione di compiti ad occasione per sviluppare le potenzialità dei collaboratori. I vantaggi sono tanti: nascono soluzioni nuove, migliora il clima interno e si evita il sottoutilizzo del capitale umano
Abbiamo iniziato il 2022 confrontandoci
con problemi nuovi quali le crisi geopolitiche, il prezzo esorbitante dell’energia,
la scarsità di commodity, i contagi legati
alle varianti ma anche con problemi che
ci trasciniamo da anni senza essere riusciti
a trovare soluzioni adeguate. Alle analisi
impietose del 55° Rapporto del Censis, si
sono susseguite infatti quasi quotidianamente, dall’inizio dell’anno, denunce da
parte delle imprese sul mismatch fra la
domanda e l’offerta di lavoro. Sono anni
che su questo problema si organizzano
confronti, dibattiti, studi, senza che sia
mai stata implementata un’adeguata e
strutturale politica di programmazione
che vedesse coinvolte famiglie, imprese,
sistema scolastico e universitario, Regioni,
Parlamento. Non solo, ma questo problema
è collegato all’andamento demografico
che sta assumendo, secondo le proiezioni
più aggiornate, proporzioni drammatiche.
Rifacendoci ai dati del demometro Neo-demos, l’Italia è l’unico paese europeo in
controtendenza e nei prossimi vent’ anni
la popolazione in età da lavoro diminuirà di
6,8 milioni; questo implica, a perimetro costante, il blocco di molte delle attività correnti. Altro che decrescita felice, decantata
dagli epigoni, vecchi e nuovi, dell’arcadia!
Lo stesso ricambio generazionale, abilmente conclamato per motivare modifiche al
sistema pensionistico, si sta rivelando un
flop con conseguenze economiche che
pagheranno le future generazioni. Esistono,
però, le condizioni perché, almeno a livello delle imprese, possano essere attivate
iniziative per cercare di ridurre (in attesa di
provvedimenti più generali magari attivati
o accelerati dal Pnrr) le attuali criticità.
Nella nostra attività di consulenza a favore
delle Pmi, abbiamo riscontrato come la
pandemia abbia creato non solo una business disruption di proporzioni inusitate,
ma abbia favorito anche un clima nuovo
all’interno delle aziende. Di fronte al pericolo incombente di scomparire e di veder
compromesso più o meno irrimediabilmente il proprio business, in molte realtà
si sono sviluppate idee e modalità nuove,
soluzioni di emergenza, ma soprattutto
uno spirito diverso, di condivisione e di
resilienza.
Queste, a nostro avviso, sono le condizioni
ideali per impostare una politica diversa di
investimento nelle risorse, una politica che
non si limiti alla ricerca affannosa di risorse
esterne ma che porti a rivedere, alla luce
delle tendenze demografiche, paradigmi
gestionali, ormai vecchi e desueti, per i
quali il potenziale sarebbe da ricercare solo
fra i giovani.
Il riferimento che abbiamo fatto al nuovo
clima che in molte imprese si è sviluppato
come reazione alla forte criticità non è
casuale perché proprio sviluppando questo
clima è possibile mettere ogni collaboratore
nelle condizioni di esprimersi, di formulare
le proprie idee, di avanzare proposte e interrogativi, di sentirsi a suo agio, di uscire
dall’apatica comfort zone costruita negli
anni come difesa dell’esistente e dello
status quo.
Possiamo confermare, anche alla luce di
recenti esperienze condotte in realtà cristallizzate, affette da silos syndrome, come la
creazione di un contesto positivo, aperto,
finisca per favorire l’emergere di potenziali
ed evitare il sottoutilizzo del capitale umano, la dissipazione delle competenze, la
dequalificazione.
Non sono soluzioni semplici perché richiedono un impegno costante, anche per rendere consapevoli le persone dell’insidioso
rischio dell’obsolescenza della professionalità raggiunta; rischio crescente anche
in funzione dell’impetuoso sviluppo delle
nuove tecnologie.
Nelle aziende 4.0 questo processo di attenzione e di investimento nelle risorse era già
iniziato da anni e spiega non solo le performance
realizzate nonostante la pandemia, ma anche il
livello di competitività raggiunto pure nei confronti di temibili concorrenti esteri, per esempio
nel segmento dell’automazione. Occorre liberarsi
da una visione del lavoro basato sull’accumulazione di conoscenza ed esperienza e costruire
un sistema basato sull’idea del talento, della
possibilità di sviluppare il potenziale esistente
all’interno di ogni persona. Occorre ripensare,
come sostiene l’amico Carlo Robiglio in “Dialoghi
sulla piccola impresa”, il rapporto impresa-persona come il concetto stesso del posto di lavoro
“che deve diventare (…) un luogo di crescita dei
talenti delle persone”.
Questo comporta rivedere la politica della formazione sin qui adottata, se non impostarla ex
novo. Il fatto stesso che alcuni fondi professionali
abbiano dei residui, in alcuni casi consistenti, dimostra come non vi sia stata sinora una politica adeguata, pure a fronte di una molteplice
offerta di prodotti, di soluzioni formative sempre più sofisticate ma anche accessibili.
Non si tratta di cambiare prospettiva, come frettolosamente alcuni sostengono quando
affermano di passare dal time to market al time to mind. Proprio per essere competitivi
e ridurre i tempi di “ideazione-produzione-commercializzazione” del prodotto, si impone l’esigenza di ridurre i tempi di acquisizione e implementazione della conoscenza,
non escludendo nessuno ma responsabilizzando ciascuno sul rischio di poter, non
sfruttando l’opportunità, marginalizzarsi.
Diventare una learning company o una learning organization comporta, secondo le
nostre esperienze, un itinerario che si articola in quattro step: una fase di mappatura
e di monitoraggio per collegare gli interessi individuali con gli obiettivi aziendali, per
identificare i gap e le aree di debolezza nelle quali programmare gli investimenti di
formazione al fine di ridurre la vulnerabilità aziendale; una fase di sensibilizzazione
e confronto con i collaboratori, anche per condividere quando e come mettere a
disposizione le opportunità di up-skilling; una fase di definizione delle roadmap di
sviluppo proprio per venire incontro alle esigenze di riconoscimento e di progressione
nel ruolo dei collaboratori; e infine una fase di mantenimento e arricchimento delle
mappe cognitive che verrebbero a svilupparsi in azienda, fase da gestire insieme agli
stessi collaboratori.
Non è solo un tema di sostenibilità, di corrispondenza ai canoni di ESG, o di rientrare nell’elenco delle aziende che Larry Fink di BlackRock, nella lettera inviata ad inizio anno ai Ceo,
ha definito le “aziende unicorno”; in Italia è un tema di sopravvivenza e di reazione a sfide
che solo le imprese, nella generale afasia politica, possono raccogliere e vincere.