Ripensare il lavoro

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Pubblicazione: 8 marzo 2022 00:00

In molte aziende, anche a causa della pandemia, sta cambiando il modo di gestire le risorse umane e il lavoro si trasforma da mera esecuzione di compiti ad occasione per sviluppare le potenzialità dei collaboratori. I vantaggi sono tanti: nascono soluzioni nuove, migliora il clima interno e si evita il sottoutilizzo del capitale umano

Abbiamo iniziato il 2022 confrontandoci con problemi nuovi quali le crisi geopolitiche, il prezzo esorbitante dell’energia, la scarsità di commodity, i contagi legati alle varianti ma anche con problemi che ci trasciniamo da anni senza essere riusciti a trovare soluzioni adeguate. Alle analisi impietose del 55° Rapporto del Censis, si sono susseguite infatti quasi quotidianamente, dall’inizio dell’anno, denunce da parte delle imprese sul mismatch fra la domanda e l’offerta di lavoro. Sono anni che su questo problema si organizzano confronti, dibattiti, studi, senza che sia mai stata implementata un’adeguata e strutturale politica di programmazione che vedesse coinvolte famiglie, imprese, sistema scolastico e universitario, Regioni, Parlamento. Non solo, ma questo problema è collegato all’andamento demografico che sta assumendo, secondo le proiezioni più aggiornate, proporzioni drammatiche. Rifacendoci ai dati del demometro Neo-demos, l’Italia è l’unico paese europeo in controtendenza e nei prossimi vent’ anni la popolazione in età da lavoro diminuirà di 6,8 milioni; questo implica, a perimetro costante, il blocco di molte delle attività correnti. Altro che decrescita felice, decantata dagli epigoni, vecchi e nuovi, dell’arcadia! Lo stesso ricambio generazionale, abilmente conclamato per motivare modifiche al sistema pensionistico, si sta rivelando un flop con conseguenze economiche che pagheranno le future generazioni. Esistono, però, le condizioni perché, almeno a livello delle imprese, possano essere attivate iniziative per cercare di ridurre (in attesa di provvedimenti più generali magari attivati o accelerati dal Pnrr) le attuali criticità.

Nella nostra attività di consulenza a favore delle Pmi, abbiamo riscontrato come la pandemia abbia creato non solo una business disruption di proporzioni inusitate, ma abbia favorito anche un clima nuovo all’interno delle aziende. Di fronte al pericolo incombente di scomparire e di veder compromesso più o meno irrimediabilmente il proprio business, in molte realtà si sono sviluppate idee e modalità nuove, soluzioni di emergenza, ma soprattutto uno spirito diverso, di condivisione e di resilienza.

Queste, a nostro avviso, sono le condizioni ideali per impostare una politica diversa di investimento nelle risorse, una politica che non si limiti alla ricerca affannosa di risorse esterne ma che porti a rivedere, alla luce delle tendenze demografiche, paradigmi gestionali, ormai vecchi e desueti, per i quali il potenziale sarebbe da ricercare solo fra i giovani.

Il riferimento che abbiamo fatto al nuovo clima che in molte imprese si è sviluppato come reazione alla forte criticità non è casuale perché proprio sviluppando questo clima è possibile mettere ogni collaboratore nelle condizioni di esprimersi, di formulare le proprie idee, di avanzare proposte e interrogativi, di sentirsi a suo agio, di uscire dall’apatica comfort zone costruita negli anni come difesa dell’esistente e dello status quo.

Possiamo confermare, anche alla luce di recenti esperienze condotte in realtà cristallizzate, affette da silos syndrome, come la creazione di un contesto positivo, aperto, finisca per favorire l’emergere di potenziali ed evitare il sottoutilizzo del capitale umano, la dissipazione delle competenze, la dequalificazione.

Non sono soluzioni semplici perché richiedono un impegno costante, anche per rendere consapevoli le persone dell’insidioso rischio dell’obsolescenza della professionalità raggiunta; rischio crescente anche in funzione dell’impetuoso sviluppo delle nuove tecnologie.

Nelle aziende 4.0 questo processo di attenzione e di investimento nelle risorse era già iniziato da anni e spiega non solo le performance realizzate nonostante la pandemia, ma anche il livello di competitività raggiunto pure nei confronti di temibili concorrenti esteri, per esempio nel segmento dell’automazione. Occorre liberarsi da una visione del lavoro basato sull’accumulazione di conoscenza ed esperienza e costruire un sistema basato sull’idea del talento, della possibilità di sviluppare il potenziale esistente all’interno di ogni persona. Occorre ripensare, come sostiene l’amico Carlo Robiglio in “Dialoghi sulla piccola impresa”, il rapporto impresa-persona come il concetto stesso del posto di lavoro “che deve diventare (…) un luogo di crescita dei talenti delle persone”.

Questo comporta rivedere la politica della formazione sin qui adottata, se non impostarla ex novo. Il fatto stesso che alcuni fondi professionali abbiano dei residui, in alcuni casi consistenti, dimostra come non vi sia stata sinora una politica adeguata, pure a fronte di una molteplice offerta di prodotti, di soluzioni formative sempre più sofisticate ma anche accessibili. Non si tratta di cambiare prospettiva, come frettolosamente alcuni sostengono quando affermano di passare dal time to market al time to mind. Proprio per essere competitivi e ridurre i tempi di “ideazione-produzione-commercializzazione” del prodotto, si impone l’esigenza di ridurre i tempi di acquisizione e implementazione della conoscenza, non escludendo nessuno ma responsabilizzando ciascuno sul rischio di poter, non sfruttando l’opportunità, marginalizzarsi.

Diventare una learning company o una learning organization comporta, secondo le nostre esperienze, un itinerario che si articola in quattro step: una fase di mappatura e di monitoraggio per collegare gli interessi individuali con gli obiettivi aziendali, per identificare i gap e le aree di debolezza nelle quali programmare gli investimenti di formazione al fine di ridurre la vulnerabilità aziendale; una fase di sensibilizzazione e confronto con i collaboratori, anche per condividere quando e come mettere a disposizione le opportunità di up-skilling; una fase di definizione delle roadmap di sviluppo proprio per venire incontro alle esigenze di riconoscimento e di progressione nel ruolo dei collaboratori; e infine una fase di mantenimento e arricchimento delle mappe cognitive che verrebbero a svilupparsi in azienda, fase da gestire insieme agli stessi collaboratori.

Non è solo un tema di sostenibilità, di corrispondenza ai canoni di ESG, o di rientrare nell’elenco delle aziende che Larry Fink di BlackRock, nella lettera inviata ad inizio anno ai Ceo, ha definito le “aziende unicorno”; in Italia è un tema di sopravvivenza e di reazione a sfide che solo le imprese, nella generale afasia politica, possono raccogliere e vincere.